lunedì 2 gennaio 2012

Esiste una comunità scientifica per la sociologia italiana?



La Facoltà di Sociologia di Trento, in ristrutturazione


Pubblico qui il testo della relazione presentata al seminario  "Ruolo della sociologia e professione del sociologo" organizzato dalla Rassegna Italiana di Sociologia, Milano, Università di Milano-Bicocca, 1 Ottobre 2010. Una versione alquanto ridotta e riveduta della relazione è stata pubblicata nella Rassegna Italiana di Sociologia, 2/2011, con commenti di Arnaldo Bagnasco, Delia Baldassari e Paolo Volontè. Articolo e commenti sono disponibili sul sito www.perlasociologia.blogspot.it, nel frattempo divenuta sede privilegiata del dibattito tuttora in corso sulla "crisi" o forse meglio il "degrado" della sociologia italiana.




La sociologia è essa stessa un fenomeno sociale e quindi può essere studiata come tale 
(E.C. Hughes, Lo sguardo sociologico, Bologna, Il Mulino 2010, p. 329).

Intellectual life is first of all conflict and disagreement (R. Collins, The Sociology of Philosophies. 
A Global Theory of Intellectual Change Cambridge, Harvard UP 1999,  p. 1)

I think that the sociology of intellectuals is a preliminary to all science of the social world, 
which is necessarily done by intellectuals (Pierre Bourdieu).

Siamo in una civiltà opulenta. – suole dir lo scrittore -; un tempo ero magro; per l’inquietudine adesso son grasso; e c’è il problema di smaltire i rifiuti, che oggi è il maggior problema, nato dallo spirito del capitalismo, direbbe Max Weber (E. Cavazzoni, Gli scrittori inutili, Milano, Feltrinelli 2002, p. 16, corsivo mio). 




I.

Chi sono io? Non è una questione di legittimità (chi sono io per fare questo?), per quanto anche questa andrebbe forse posta e sono certo qualcuno alla fine del mio intervento porrà, ma di metodo. E’ il problema dello “standpoint”. Qual è il punto di vista da cui parlerò della sociologia italiana e della sua situazione? Da quale posizione parlo? Mi presento. Sono professore associato [ed evidentemente di genere maschile] di sociologia generale – ma mi occupo molto di sociologia culturale (e anche di mafia!) - a Bologna, non sotto concorso e neppure reduce da recenti concorsi. Il che è un bene ma anche un male. Preciso che ho una qualche collocazione, che ho ereditato ma in parte scelto seppure indirettamente, in termini di quelle strane cose che solo i sociologi italiani conoscono chiamate “componenti”, e mi trovo quindi in area MiTo (che però non frequento e non seguo nelle sue attività,) ma non sono, né sono mai stato, socio dell’unica associazione professionale di sociologi accademici esistente nel nostro paese, l’AIS – in compenso lo sono o lo sono stato dell’ASA, dell’ESA e dell’ISA. Sono del MiTo (o come tale sono percepito), ma provengo dalla Università Cattolica, dove ho studiato anche sociologia ma dove mi sono laureato con gli scienziati politici, e dove ho anche insegnato per un certo periodo della mia vita.

Ho infatti un passato (tutto sommato breve ma sufficiente per segnare una identità professionale, credo) di ricercatore  - con tanto di conferma - in Storia delle istituzioni politiche (anche se mi occupavo poi più di storia contemporanea), appunto alla Cattolica (1995-99), anche se ho fatto un dottorato in sociologia (TN, V ciclo) con una tesi di sociologia storica, sul mondo delle professioni (una in particolare). Dal 1999 sono appunto passato ufficialmente alla sociologia (con due volumi decisamente di sociologia e un libro apparentemente di storia che però era rielaborazione della tesi in sociologia storica, voglio precisare a scanso di equivoci). Il mondo degli storici, moderni contemporanei, mi è relativamente familiare, più di quello degli scienziati politici.

Collaboro da anni, dal tempo del dottorato, anche se in modo spesso critico, relativamente marginale e non raramente conflittuale, all’Istituto Cattaneo (dove peraltro dirigo una collana  di pubblicazioni dedicata alla “Cultura in Italia”); sono consulente del Mulino per l’area sociologica da sei anni in modo formale, da prima in modo informale, e sono cofondatore e condirettore di due riviste: Studi Culturali (che esiste dal 2004) e Sociologica (dal 2007). Questo, soprattutto la prima iniziativa, mi mette in contatto con studiosi di altre discipline, dall’antropologia alla critica letteraria alla semiotica alla teoria politica di stampo marxista. Sono nell’editorial board di due riviste internazionali (Poetics e Cultural Sociology) con cui ho rapporti piuttosto continuativi e stretti, e da anni (ma con una pausa in mezzo) sono nel comitato direttivo di Polis. Non ho studiato all’estero, ma ho contatti frequenti con sociologi americani e inglesi e francesi, a Princeton, Yale, Columbia, Emory, Parigi (sono “membro associato” del Centre de sociologie europeenne) e corrispondo regolarmente, anche confrontandomi sul caso italiano, con loro. Mi occupo da tempo di sociologia e storia della sociologia, soprattutto americana e anche italiana. Su questo verteva il mio primo articolo in assoluto, uscito nel ’92 su una rivista di storia.

Alcuni dei caratteri, dei paradossi, dei mali e delle peculiarità che descrivo li ho vissuti sulla mia pelle, a volte approfittandone, altre volte subendoli, spesso provando disgusto, qualche volta ilarità. Non ho fatto una ricerca sulla sociologia italiana contemporanea, ma ne sto facendo una anzi più di una sulla storia (sociale) della sociologia italiana dalle origini ottocentesche agli anni sessanta del secolo appena passato….quello che dirò è in parte effetto di questa ricerca ma soprattutto della mia osservazione partecipante in questa disciplina, che frequento dal 1990 (anno di ingresso al dottorato), nelle sedi che ho detto, e naturalmente però anche sentendo storie di altri colleghi…sono spesso intervenuto negli ultimi tempi sullo stato della sociologia italiana, tramite Sociologica tramite il blog della Treccani, e quello dell’ISA sulle “università in crisi” (su invito dello stesso Burawoy che lo cura). Pur non iscritto all’Ais ho pensato fosse opportuno, in vista di questo seminario, osservare da vicino il suo funzionamento almeno in occasione dell’evento rituale principale attorno al quale l’associazione si materializza: il congresso annuale. In particolare, ho raccolto materiale osservativo, “sul campo”, nelle due giornate svolte qui a Milano una settimana fa. Plenarie, assemblea dei soci, qualche panel, e naturalmente la sociabilità da “professore a convegno” che si genera immancabilmente in queste occasioni – occasioni importanti, voglio subito dire, occasioni di incontro, scambio e anche (raramente nel nostro caso) scontro che fanno una parte consistente della vita di una professione, e di una disciplina. Ma anche occasioni che proprio per la loro importanza diciamo strutturale rivelano molto, nelle forme e nei modi in cui avvengono, sullo stato di una professione o disciplina. Le cose che dirò, i fatti che esporrò, sono noti a tutti i colleghi che abbiano un po’ di frequentazione del campo. Non pretendo che tutti condividano la mia lettura di quei fatti, ma credo sia difficile mettere in dubbio che i “fatti” di cui parlerò non esistano – per quanto anche su questi si possa, come su tutto, imbastire un discorso sociologico che insiste sulla “costruzione” e sul gioco delle prospettive ecc. sino ad arrivare al fatidico “la realtà non esiste” che è limite ultimo di ogni discorso che si voglia anche solo vagamente scientifico. Per quanto mi riguarda, la realtà esiste anche se esistono diversi modi di vederla e di intenderla. Siamo qui dopotutto per questo.

Mi scuso per questa premessa così personale, che reputo però importante, premessa di metodo appunto come ho detto, perché non c’è discorso che NON sia posizionato, e io sono posizionato come tutti, quindi vedo le cose da un certo punto di vista anche se mi sforzerò di vederle da più punti di vista…la mia biografia mi aiuta, credo o spero, ad assumere i panni degli altri, forse, o a vedere le cose in modo un po’ inconsueto..ma non potrò avere un punto di vista olimpico, superiore a tutti gli altri, trascendente. Avrò raggiunto il mio obiettivo se le cose che sosterrò, e gli argomenti che avanzerò, così come i temi o gli stessi “fatti” che illustrerò (a partire evidentemente da una selezione tra le migliaia di fatti possibili)  saranno materia di discussione, possibilmente costruttiva, saranno in altre parole interessanti e meritevoli di confronto.



II.

Passiamo dunque, con queste piccole e certo insufficienti premesse metodologiche, al tema dell’intervento. Che, preciso, non ho scelto ma mi è stato affidato. Ho scelto di accettarlo, questo sì. Come ho scelto di accettare il titolo del mio intervento così come era, pur scettico nei confronti di un termine, “comunità”, e “comunità scientifica” per di più,  che trovo eccessivamente connotato e dal limitato valore analitico. Come che sia, ci sono due evidenti questioni iscritte nel titolo che mi è stato dato. Esse sono:

1)   La sociologia italiana è una “comunità”? Chiamerò questo il problema della organizzazione sociale della sociologia italiana.
 2) La sociologia italiana è “scientifica”? Questo può dirsi il problema dello statuto intellettuale della sociologia italiana.

Si noti: si può essere (credo) comunità senza fare scienza, ma non si può essere o fare scienza senza che ci sia anche una qualche “comunità”…così almeno ci dice il vecchio Kuhn. Ma non è forse davvero così…anzi non è così per i sociologi della scienza e della conoscenza o delle idee (specialità che coltivo): nessuno fa scienza da solo, certo,  la scienza è insomma un fatto squisitamente sociale e collettivo, ma ci sono storicamente diverse organizzazioni sociali della scienza, e si può fare scienza anche senza “comunità”, o magari su basi che comunitarie proprio non sono, e questo forse è quel che accade in Italia tra i sociologi…non è detto che questa sia la situazione migliore, ma non è neppure detto che su queste basi così poco comunitarie non si possa costruire un progetto o un programma scientifico, e soprattutto fare scienza. Il problema è sapere quando queste basi non comunitarie o addirittura anticomunitarie diventano incompatibili con la “scienza” – che è poi un gioco sociale, un modo di fare cose che segue certe regole e che richiede pertanto il soddisfacimento di alcuni requisiti per poter esserci. Su questo, che è chiaramente un nodo cruciale, mi soffermerò più avanti. Ma dico subito che io preferisco parlare, con Bourdieu, di campi e nel caso specifico di campo scientifico. E parlare di campo “significa rompere con l’idea che gli scienziati formino un gruppo unitario, se non omogeneo” (Bourdieu 2003, p. 62). Come afferma in modo sintetico ed efficace una delle epigrafi, la vita intellettuale, inclusa quella della scienza, è fatta di conflitti e disaccordi (Collins 1999). Questo non vuol dire che ci sia solo conflitto, e mai cooperazione, o che gli scienziati non agiscano mai come se fossero in una comunità. Ma la questione è: a quali condizioni questo accade? Cioè quali condizioni devono soddisfarsi perché un campo intellettuale possa in modo credibile presentarsi come “comunità scientifica”?

Queste due evidenti e importanti questioni non esauriscono, però, il tema del mio intervento. Due altri interrogativi sono impliciti nel titolo, per come lo leggo, che seppure forse meno importanti o meglio meno centrali meritano qualche attenzione:

3) c’è posto in Italia per una comunità che sia scientifica di sociologi? E’ questo il problema della localizzazione in un certo territorio o ambito spaziale, che inevitabilmente trasfigura in quello che possiamo chiamare il problema istituzionale, cioè della organizzazione sociale più ampia in cui la disciplina si trova a operare in questo spazio geografico e politico-istituzionale chiamato “Italia” (insomma, due problemi distinti ma connessi: la dimensione spaziale e la base istituzionale, sia nel sistema universitario che in quello editoriale e mediatico)

Quarto e ultimo interrogativo, che esplicito benché ritenga non fosse nelle intenzioni o meglio nell’orizzonte degli organizzatori:

4)   esiste qualcosa come una “sociologia italiana”? Lo chiamerò il problema della identità.

Questi sono gli interrogativi cui cercherò di dare qualche plausibile risposta nel mio intervento, con le debite spiegazioni e illustrazioni – anche tratte dal mio piccolo fieldwork all’ultimo congresso Ais. Concluderò con qualche suggerimento o meglio proposta per rimediare o tentare di rimediare alle (molte) debolezze e ai (molti) mali che la mia analisi, o la mia lettura, farà emergere, insieme ai (meno numerosi, temo) punti di forza, che sono anche gli appigli su cui fare leva per uscire dalla crisi. Che evidentemente penso ci sia. E penso sia anche seria.


III.

Parto dal punto (d) per affrontare subito un problema che mi sta personalmente a cuore ma che probabilmente lascia indifferenti molti. Esiste una sociologia fatta da italiani, così come esiste una sociologia dell’Italia (cioè avente l’Italia come oggetto di studio), ma esiste anche una sociologia italiana. Solo che la sociologia italiana raramente viene coltivata dagli italiani, e – cosa ancora più grave - raramente viene ricordata o riconosciuta dai medesimi. Cos’è “la sociologia italiana”? Ci piaccia o no, per chi vi osserva da fuori, questa è quella che è emersa tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento: Pareto, Mosca, Michels, ma anche Gini, Sighele, Ferrero… tutti autori che nessun sociologo italiano oggi studia, considerandoli “roba del passato”, come roba del passato è la “Rivista Italiana di Sociologica” fondata nel 1897 e dyrata sino al 1921, una delle più importanti e migliori riviste sociologiche dell’età che oggi diciamo classica. Nessun sociologo, o quasi nessuno (e su quel “quasi” ci sarebbe da aprire un capitoletto a parte che evito), oggi li studia, lasciandoli volentieri agli storici delle dottrine politiche e sempre più spesso agli storici culturali. Male. L’amnesia delle origini nuoce sia al senso di comunità, sia all’idea che ci possa essere una tradizione da difendere e da coltivare, e di cui essere fieri. I sociologi italiani NON sono fieri delle loro origini, anzi a dirla tutta le rinnegano e alla fine le disconoscono, nel senso che NON le conoscono neppure.

Molti di quelli che disconoscono lo fanno anche sulla base di una certa idea: che essendo scienza la sociologia non è né italiana né francese né americana….solo in parte vero, dal momento che le tradizioni francese, americana, tedesca ed inglese sono invece prese sul serio e ricordate nella sociologia internazionale, e che per quanto scienza la sociologia è pur sempre una scienza sociale e/o umana e come tale fortemente condizionata dalle condizioni sociali e/o umane in cui si svolge e si sviluppa. Per cui  i sociologi scientisti senza saperlo poi finiscono per seguire come se fosse universale un modello di sociologia (quello angloamericano per lo più) che ha invece una sua storia  e persino validità locale e che gli stessi locali stanno mettendo in discussione nella sua universalità (si parla di provincializzare la sociologia, nel senso appunto di riconoscerla nel suo essere a base provinciale anche quando sembrerebbe universale o pretende di esserlo: cfr. Burawoy 2005)

C’è comunque anche una sociologia italiana contemporanea, cioè una sociologia fatta da italiani spesso anche studiando il caso italiano che si è imposta come contributo originale anche nelle sociologie di altre nazioni: penso alla sociologia economica con il filone della Terza Italia, ma anche (forse, nel senso che la sua italianità è meno evidente) a quella dei movimenti sociali, con Melucci e seguaci.  In genere, comunque, la sociologia italiana contemporanea è poca cosa. Molto più significativa e ancora riconosciuta come tale quella del passato, che però appunto i sociologi con una discreta miopia direi hanno abbandonato completamente ad altri – non solo agli storici ma anche a sociologi di altri paesi (si pensi agli studi paretiani, o a quelli su Michels, e in genere alla sociologia delle élites).

Ci sono due ragioni di fondo di questo abbandono, mi pare:

1) i sociologi italiani hanno poco senso della storia (per ragioni che dirò) tant’è vero che la sociologia storica in Italia praticamente non esiste[1], e la storia della sociologia è coltivata da pochi adepti molto specializzati e del tutto trascurata dai sociologi che lavorano su argomenti “sostantivi”;

2)  la sociologia italiana delle origini era una sociologia per molti aspetti conservatrice se non reazionaria, da un lato, o fortemente segnata dal rapporto con il recente marxismo….e la sociologia in Italia è ri-nata nel secondo dopoguerra in funzione antifascista e si è professionalizzata negli anni ottanta in funzione antimarxista.

E così, l’unico sociologo di rilievo internazionale che l’Italia aveva al momento della cosiddetta “riformazione della sociologia in Italia”, nel secondo dopoguerra, è stato messo in disparte come se non fosse mai esistito. Alludo a Corrado Gini. Che oggi conoscono solo gli statistici e i demografi, che quando era in vita era a tutti gli effetti conosciuti anche come sociologo e come tale esercitava il suo magistero: basti dire che ha scritto a lungo sulla RIS, che ha insegnato sociologia a Roma, che ha anzi reso obbligatoria la sociologia per primo in Italia (nelle fac. di scenze statistiche), che è stato visiting professor di sociologia ad Harvard,  e che è stato per anni presidente dell’Institute International de sociologie, nonché direttore della rivista dell’Istitute, che ancora si pubblica – un po’ in sordina a dire il vero e almeno in certi ambienti senza che ce se ne accorga - in Italia infatti (con base alla Sapienza). Credo che i sociologi italiani che sappiano non tanto chi è Gini – è quello del coefficiente di Gini che si trova in tutti i manuali e dizionari di scienze sociali dopo tutto - ma cosa abbia effettivamente fatto come sociologo si possano contare oggi sulle dita di una mano, massimo due.

I sociologi italiani, anche i migliori, sembrano negare che esiste una continuità molto forte tra origini positiviste, fascismo, e postfascismo.  Non è affatto vero come dice una certa vulgata, ancora ripetuta sull’ultimo numero del Mulino, che durante il fascimo non ci fosse sociologia. Paradossalmente, ce n’era molta, se ne faceva molta, ed era conosciuta anche a livello internazionale. Ma era implicata nel fascismo e quindi è stata negata negli anni successivi alla fine del fascismo.  Con una operazione di negazione che era alla radice una negazione ideologica. Il peccato originale della sociologia italiana di oggi, come lo definisce Donati, sta anche in questa operazione assai poco raccomandabile dal punto di vista del funzionamento di una scienza, operazione di negazione di ciò che non corrisponde ad una certa tavola di valori. La sociologia fondata da Abbagnano e Ferrarotti e Treves non era neutra, era tutta interna ad un progetto insieme politico e culturale di rifondazione civile e politica di un paese lacerato, anche se volle legittimarsi come scienza di contro all’ideologia fascista. I mali della sociologia italiana, questa è una delle ipotesi su cui sto lavorando, sono cominciati lì, nella indisponibilità a fare i conti con una eredità scomoda che pure esisteva, ed era sotto agli occhi di tutti allora. Per questo occorreva negarla con forza. Ma così facendo è stata compiuta una delle peggiori azioni che una scienza possa fare: censurare, e negare l’evidenza. Le fratture, i cleavages che ancora oggi segnano il campo sociologico nazionale (e l’Ais come sua espressione associativa) hanno lì una delle radici. Ideologiche.

Le stesse che hanno espunto dalla disciplina ogni traccia di teoria marxista, e in alcune cerchie intellettuali persino ogni traccia di teoria critica. Chi è il sociologo che ha letto Impero di Michael Hardt e Toni Negri? Eppure è lettura comune tra i sociologi critici americani e inglesi.  Recensito anche dall’AJS e non dall’ultimo venuto (Steinmetz). E la sociologia critica, più o meno legata al marxismo, conta negli USA esponenti di primo piano come Burawoy, Steinmetz, il celebre anche da noi Immanuel Wallerstein, in parte Craig Calhoun (certo più sociologo critico che marxista),  e sino a che è stato vivo l’italiano Giovanni Arrighi. Che è scomparso qualche tempo fa e nessuno in Italia sembra essersene accorto.


IV.

Passiamo al quesito sub a) che a quanto sono venuto dicendo è collegato a filo doppio: esiste una “comunità” di sociologi in Italia?

La mia risposta è ambivalente, come è ambivalente o meglio polisemico il concetto di “comunità”: non esiste una comunità se con questo termine intendiamo uno spazio condiviso di relazioni e interazioni sociali frequenti e continuative, magari anche “calde”; non esiste una comunità se con questo intendiamo uno spazio condivido di valori e ideali di eccellenza (comunità in senso parsonsiano o meglio habermasiano); ma esiste una comunità se con questo intendiamo uno spazio condiviso di pratiche in un certo ambiente istituzionale….pratiche però che, ahimè o meglio ahinoi, finiscono per negare o compromettere appunto lo spazio comunitario inteso in senso relazionale, da un lato, e quello ideale-normativo dall’altro. Mi spiego.

La sociologia ri-nasce in Italia (notate che insisto su questa idea di ri-nascita) negli anni cinquanta intorno a due poli principali segnati dalla congiuntura politica dell’epoca, postfascista e fortemente condizionata dai risvolti locali della Guerra fredda: un polo cattolico,legato alla Dc e quindi al governo nazionale, e un polo laico o meglio di sinistra, legato a Pci e Psi e quindi ad una serie di governi locali e a  organizzazioni categoriali (sindacati in primis).  Un giorno qualcuno farà finalmente una storia seria di questa genesi (a cui fa qualche interessante cenno il recente contributo di P.P. Donati su Il Mulino), per intanto limitiamoci a ricordarci che così è stato e che questa distinzione originaria NON è mai venuta meno, dico MAI da allora: cioè sono 60 anni che la sociologia italiana funziona come “comunità divisa” postfascista e insieme da “guerra fredda” – anche dopo che quest’ultima è venuta meno a livello globale. Se poi si pensa che la divisione originaria è diventata una tripartizione (le famose e famigerate 3 componenti) allora si capisce in che senso la comunità dei sociologi possa compromettersi e non esserci.

Ma procediamo in modo più analitico. Guardiamo come si presenta oggi, fenomenologicamente, il campo nazionale della sociologia (uso il termine “campo” nel senso di Bourdieu, come detto: uno spazio sociale strutturato, composto di individui e organizzazioni che si relazionano in modo più o meno continuativo, spesso configgendo per il controllo di qualcosa, o anche che NON si relazionano: anche i buchi strutturali hanno effetti e significano qualcosa):

      a)      Il campo sociologico è articolato in componenti – al momento 3 – che hanno acquisito piena legittimità entro l’associazione nazionale dei sociologi academici (Ais), come può evincersi dalla foto. Il campo non si esaurisce nelle componenti, perché NON tutti i sociologi sono iscritti all’Ais e non tutti partecipano alla vita di una componente (le componenti sono mutuamente esclusive, come i partiti). Anzi, molti dei più accreditati e rispettati e riconosciuti sociologi italiani NON sono iscritti all’Ais – anche se magari lo sono stati in passato -  e talvolta rifuggono dalle componenti intesi come organizzazioni con una vita associativa e uno staff, anche se poi molti di questi che non sono soci e che non amano le componenti partecipano, in mood più o meno diretto, e contribuiscono all’esistenza delle componenti stesse in occasione delle procedure concorsuali. Perché le componenti gestiscono di fatto, e ancor prima regolano, la gestione delle procedure concorsuali, inclusa la selezione di chi deve entrare nella professione e di chi deve fare carriera. Il fatto che molti dei più reputati sociologi NON sia iscritto all’Ais, fatto di per sé significativo e grave, non viene tematizzato come tale, ma ricondotto normalmente a idiosincrasie personali. Non risultano attacchi o scontri epocali tra sociologi che preferiscono stare in disparte, e che implicitamente delegittimano l’Ais, e le componenti o l’Ais che funziona di fatto come una federazione di componenti – anche se non escludo che ci siano state talvolta occasioni di tensione e conflitto, apparentemente senza grande risultati, all’interno dell’Ais anche delle componenti ad opera di singoli sociologi, che magari hanno poi lasciato l’associazione.

)         b) ogni componente – questo è appunto il brutto nome che si è imposto per etichettare ciascuno dei tre grandi gruppi che articolano questo campo - ha le sue riviste (la RIS non fa eccezione, anche se si apprezza lo sforzo di aprirsi ad una delle altre due componenti, anche in virtù dell’ambivalenza sul punto dell’editore Mulino, che nasce da una commistione di mondo laico liberal-socialista e mondo cattolico di sinistra), con scarsi o nulli legami tra comitati direttivi e poca sovrapposizione tra autori: chi pubblica nella rivista A è facile che pubblichi in quella C  ma anche che NON pubblichi nella rivista B, dove A e C sono riviste della componente 1 e B una rivista della componente 2. Conseguenza immediata: non c’è una gerarchia condivisa di riviste (nel senso di un consenso sulla collocazione ad esempio della  RIS, come l’AJS o l’ASR negli USA, come la più importante e rinomata delle riviste italiane….) ma tante gerarchie quante componenti, almeno…

     c)      ogni componente ha le sue case editrici elettive (anche se qui c’è qualche flessibilità in più, data dalle esigenze di mercato direi), il che rende difficile stabilire una gerarchia condivisa di editori (anche il Mulino viene messo in discussione, talvolta bisogna dire dagli stessi autori del Mulino che non amano veder pubblicare cose di cattolici e che non gradiscono gli effetti che la pratica delle collane istituzionali, a pagamento, produce: i libri si pubblicano in certe collane se ci sono i denari per farlo, senza un grande controllo di qualità. Comunque, anche il controllo di qualità non è indenne da alcuni problemi, come relazioni sociali più o meno forti, adesioni normative e non ultimo un occhio alle possibilità di vendita, che fanno bene a tutti, anche agli autori di libri che non vendono ma che per essere pubblicati necessitano di casse editoriali forti). Peraltro, se si offre di pubblicare a chiunque per il Mulino (o Feltrinelli) è difficile che non venga colta l’opportunità, ma non credo si possa dire lo stesso nel caso di altri editori notoriamente prezzolati che pure pubblicano la massa dei libri sociologici…il che è segno, credo, che una gerarchia nel campo degli editori sia un po’ più condivisa che in quello delle riviste (con però la complicazione che anche le riviste hanno un editore….).

    d)   ogni componente ha le sue gerarchie sociali e intellettuali, e le sue code concorsuali

    e)    ci sono spesso specializzazioni intellettuali, cioè una distribuzione delle sub discipline che segue i confini delle componenti: così lo studio delle disuguaglianze e della politica, ma anche del mondo economico, e de movimenti sociali, sono specialità del polo laico, quello dei fenomeni culturali e mediatici un cavallo di battaglia di cattolici e anche dei “terzi”, che sono forti sulla metodologia.

     f)     ogni componente ha la sua pretesa di essere la meglio almeno per qualcosa (ogni componete sceglie il qualcosa che conta sulla base dei suoi punti di forza). Il polo laico che si è venuto chiamando MiTo pretende di essere il meglio intellettualmente, ed è vero che qui si trova da sempre la sociologia nazionale con maggior riconoscimento internazionale; il polo cattolico pensa di essere il meglio dal punto di vista del significato etico e spirituale della sua proposta intellettuale (di impatto internazionale molto più limitato, e dalla base metodologica più precaria) ma anche, credo di poter dire, da quello della sua capacità di raccogliere fondi per fare ricerca e da quello della sua capacità di costruire gruppi di ricerca stabili, tra cui uno che di fatto organizza il polo cattolico nel suo insieme, cioè la SPE[2]; il terzo è un po’ più difficile essendo nato per scorporo e per differenza, ed essendosi sviluppato un po’ in modo contingente mano a mano che nel polo laico si creavano fratture spesso personali.; mi sembra di poter dire che il suo punto di forza stia nella capacità di organizzazione e di controllo gerarchico anche senza una organizzazione formale

Gli effetti di questa articolazione sono evidenti a tutti: stare in una componente non vuol dire solo stare in una certa coda e in una certa sede o frequentare un certo insieme di colleghi, ma anche pubblicare e quindi seguire certe riviste a scapito di altre, e certi temi invece di altri. La comunicazione scientifica ne risulta fortemente menomata, e questo, insisto sul punto, riguarda TUTTE le componenti (in sostanza: anche il MiTo, cioè chi sta nella sua area, perde qualcosa a non leggere mai libri di FrancoAngeli o a consultare “Studi di Sociologia” o l’ “International Review of Sociology”, rivista internazionale di sociologia che ha sede e base in Italia, a Roma, ed è gestita in gran parte da sociologi italiani pur essendo organo ufficiale di un organizzazione internazionale come l’Institute International de sociologie, la prima organizzazione professionale di sociologi, fondata ne 1893 da Rene Worms e presieduta per anni dal citato Gini che l’ha lasciata in eredità alla Sapienza).

Questo disturbo di comunicazione ha conseguenze di non lieve conto sulla stessa produzione scientifica dei sociologi italiani. E non solo perché si perdono a volte pezzi di conoscenza o informazioni. Un primo effetto problematico è la segmentazione della produzione scientifica secondo logiche che chiamerei eteronome, non generate né spiegate dall’oggetto di studio ma riconducibili all’appartenenza ad un certo gruppo, a iniziare dalla “componente”. Tipicamente, chi in Italia studia il tema X (politica, media, sviluppo locale ecc.) lo fa anche meccanicamente seguendo certi canoni di metodo e certi assunti filosofici,  quelli invalsi nel suo gruppo di riferimento che coincide con la componente o un suo segmento, a scapito di altri possibili – nel senso debole di approcci “altri” che esistono già nella letteratura internazionale, non in quello forte di approcci altri perché ancora da inventare. Così, anche i riferimento teorici maggiori sono spesso distribuiti secondo logiche di componente: Bourdieu va forte nella terza componente e malissimo nel MiTo, dove predominano Boudon o Goldthorpe; Bauman tira molto tra i cattolici, un tempo fedelissimi di Parsons e poi di Luhmann, ecc. Qualcuno ha successo in più di una componente – come accedeva per Parsons e come è adesso per Boltanski (che in quanto cattolico piace a certi cattolici e in quanto sociologo critico piace a certi dle MiTo). Paradossalmente, nella distorsione comunicativa, può accadere che qualcuno pensi di avere inventato qualcosa che altrove già si dice e si pratica. Con l’effetto ridicolo o patetico di presentarsi come un innovatore quando si è nel migliore dei casi un non troppo consapevole epigono. Passando tra l’altro informazioni distorte se non sbagliate ai propri studenti o allievi. E insieme passando, cioè facendosi passare, per ciò che non si è, cioè come originale teorico sociale. Ma questo non è ancora tutto.

Un secondo effetto è che, associandosi nella mente del sociologo medio il tal tema al tale approccio e anche, bisogna dirlo, al tale risultato (cioè al tale prodotto finale), ne consegue che ci sono temi che vengono considerati entro ciascuna componente come di serie A (quelli che coltivano) e altri come di serie B o C (quelli che non coltivano)…il meccanismo è anche di distinzione nel senso di Bourdieu, cioè di modi, spesso non consapevoli, di perseguire “strategie” di differenziazione e di costruzione della propria identità per differenza da altri, considerati minori….

Quello che è peggio, è che ogni componente ha, o meglio pratica, i propri standard di valutazione (spesso basati su criteri diversi)…per cui le gerarchie nel gruppo A non sono condivise dal gruppo B, studiosi che nella componente A sono considerati scarsi possono essere considerati in quella B validi, e viceversa….la cosa si applica anche ai vertici, si intende, cioè non si limita ai margini ma investe il centro decisionale di ciascun gruppo. Con effetti delegittimanti facili da immaginare, non solo tra gruppi ma anche all’interno di ciascun gruppo…Così, la richiesta di introdurre la valutazione peer review “secondo standard internazionali” – avanzata da un sociologo milanese di area MiTo all’ultima assemblea soci Ais – può provocare non solo una bocciatura della proposta ma anche un movimento d’opinione più generale contrario all’istituto stesso del peer-review (con manifestazioni di dissenso così argomentate: “Montesquieu ha scritto le sue pagine sulla divisione dei poteri che hanno segnato una svolta epocale nella cultura occidentale e del mondo senza passare sotto il peer review”).

Detto questo, e rilevate le tante fonti di tensione e anzi di spaccatura, occorre però fare chiarezza. Cosa c’entra questo con la scienza? Siamo sicuri che queste differenze incidano sula produzione scientifica in termini deleteri? Non occorre, in effetti, che  ci sia un gruppo omogeneo perché si dia, perché si faccia scienza. Come ci ricorda Collins, che ha costruito su questa idea una intera teoria del cambiamento intellettuale applicandola a due millenni e più di storia della filosofia occidentale e orientale, la produzione intellettuale, e quella scientifica non fa eccezione, presuppone anzi conflitto e disaccordo, competizione di idee e visioni, confronto anche aspro tra scuole.

I conflitti intellettuali sono anche conflitti fra interpretazioni del mondo, e del bene. La stessa opposizione al peer review non è di per sé segno di carente cultura scientifica. Anche in posti molto più scientificizzati dell’Italia (i famigerati paesi anglosassoni che un candidato alla presidenza Ais di quest’anno  ha pubblicamente bollato, in assemblea, come falsi e imbroglioni) il peer review è considerato da tempo strumento non privo di difetti, e ci sono iniziative per eliminarlo o meglio per qualificarlo e ammorbidirlo, o temperarlo con altri criteri. La stessa rivista da me con fondata e con diretta, “Sociologica”, è stata recentemente incensata sul New York Times proprio come esempio di rivista che pur non adottando in modo rigido procedure di peer-review offre però quanto di più avanzato si possa in termini di dibattito intellettuale. Le critiche al peer review sono ormai tante quante le dichiarazioni in suo favore. Eppure, la sensazione che non sia per questo, non sia cioè con queste motivazioni intellettuali che i sociologi italiani, molti sociologi italiani, disdegnano o cercano di boicottare il peer review,  la sensazione che sia per carenza di spirito di confronto e per una dura a morire concezione del lavoro intellettuale come radicato nel solipsismo della cattedra o dello studio, è molto forte. Almeno a giudicare dall’osservazione di chi sono i principali oppositori di questa procedura, e di chi sono invece i sostenitori.

Ma, ripeto, non è il conflitto in quanto tale ad ostacolare la produzione intellettuale e scientifica, quanto il fatto che questo conflitto non verta quasi mai sulle idee o sui paradigmi o sui modelli, ma quasi sempre sul controllo di risorse organizzative (i posti) ed economiche (i finanzamenti) e forse gli spazi di esposizione mediatica. Il confronto delle idee è viceversa minimo, come emerso anche alla prima plenaria Ais di giovedì scorso, dove dopo 4 relatori impeganti su un tema importante come Modernità multiple, nazioni e democrazia, si è atteso un quarto d’ora per sentire il primo, del tutto inutile, intervento dal pubblico, seguito da un secondo ed ultimo, più centrato e pertinente. Le riviste – che come abbiamo detto sono organiche a qualche componente, di fatto quando non formalmente -  non sono che molto raramente sede di dibattito e di confronto, e quando lo sono è spesso non fra esponenti di componenti diverse, ma all’interno della medesima componente (normalmente una delle tre, quella diciamo meno strutturata paradigmaticamente e più lasca anche organizzativamente).

Dove quindi i sociologi italiani fanno comunità – perché a conti fatti io credo che ci sia una comunità sociologica italiana, nel senso di una comunità di pratiche? A me pare che lo facciano nel pensarsi parte integrante di un sistema perverso, cioè di un sistema che segue la seguente logica: dato che la sociologia in Italia è fatta così e così, allora ci comportiamo così e così per non essere penalizzati…col risultato che alla fine tutti si comportano allo stesso modo cioè seguendo una logica che è non universalista e non meritocratica (un caso da manuale di quello che Paul DiMaggio e Woody Powell hanno chiamato isomorfismo istituzionale [DiMaggio e Powell 1983]), con danno non di tutti ché questo non è possibile dire (qualcuno ha il suo tornaconto, evidentemente), ma della sociologia come disciplina credibile, e quindi danno in termini della sua reputazione, o per usare ancora Bourdieu, del suo capitale simbolico, creando un deficit sia rispetto alle altre discipline (scienza politica, economia, e anche storiografia, indubbiamente in Italia più prestigiose), sia rispetto alle altre sociologie nazionali – non a tutte, certo, ma a molte di quelle dei paesi occidentali in cui la sociologia come disciplina è nata (Francia, US, UK, Germania, persino Paesi Bassi e Scandinavi).

Quello che accade all’AIS o nella generalità dei concorsi è cosa nota: anche se poco edificante e a rischio di offendere qualcuno ricordo che:

a      a) i presidenti dell’AIS non sono normalmente le punte avanzate della ricerca né i sociologi più reputati a livello internazionale (non lo dico io ma i dati tratti dalle più accreditate fonti che permettono di misurare l’impact factor)[3], questi anzi spesso evitano l’AIS da tempo o si limitano a frequentare specifiche sezioni…lasciando così il campo a chi è disposto a fare il “lavoro sporco”…e che trovano in quel lavoro la propria legittimità (sul concetto di “lavoro sporco” vedi infra).
b   b) i concorsi non sono che raramente (qualche volta lo sono e sarebbe interessante studiare quando lo sono e come e perché) procedure per la selezione dei migliori ma nella migliore delle ipotesi assegnazione ex post di posti la cui titolarità è pre-decisa sulla base di una logica spartitoria, con nessuna seria attenzione a ciò che accade nella procedura e spesso distorsioni anche nella valutazione di titoli e pubblicazioni, sino al caso limite della violazione di legge (un concorso per associato nel campo della sociologia politica è attualmente sotto processo). Quel che è peggio è che in qualche caso non si tratta neppure di distorsioni ma di applicazione di standard di valutazione sui generis, invalsi come modi di fare e giudicare comuni  e comunemente accettati nella singola componente.

Le distorsioni  - io insisto su questo punto - non sono appannaggio di una componente, anche se di certo in alcune componenti sono più frequenti, ma sono diffuse ovunque nel campo sociologico italiano. Il meccanismo isomorfico rende molto difficile sfuggire alla logica istituzionale che è venuta perfezionandosi in decenni di applicazione delle norme, e di aggiramento o manipolazione delle norme medesime.

Come che sia, dal punto di vista del concorrente a ogni concorso si fa il conto non con gli altri concorrenti iscritti (cercando di essere alla fine il migliore, per titoli pubblicazioni e eventuali esami) ma con i concorrenti delle altre componenti che hanno il loro posto nella loro specifica coda, e che possono anche valere la metà di te ma se nella loro coda sono in testa e se la loro componente risulta vincitrice nei rapporti di alleanze e/o di forza, allora il posto va all’altro e non a te, non solo con le beffe ma anche col danno perché poi bisogna pur argomentare questa graduatoria e allora dai con aggettivi del tipo “non ancora pronto”, “acerbo” ecc….aggettivi che al di là del caso singolo, più o meno spiacevole, hanno poi l’effetto combinato di rendere poco credibili in genere i giudizi che i sociologi si danno l’un l’altro, anche quando questi giudizi dovrebbero essere alla base della comunità professionale: es. giudizi sul valore di una proposta editoriale, di un articolo sottoposto a peer-review, di un progetto di ricerca ecc. (non entro nel merito delle ricerche finanziate dal Miur, non essendo mai stato in un panel aggiudicante non so cosa succede, ma certo dai risultati sembra di poter dire che anche qui vige la logica della spartizione…sono invece stato in panel europei e so che lì si valuta a prescindere da posizioni istituzionali acquisite o da criteri di appartenenza).

Ci sono dunque tante comunità? Sì e no….sì, se si intende per comunità l’esistenza generica di un sostrato sociale (e noi c’è dubbio che in Italia la sociologia non la facciano degli individui ma dei gruppi), no se si intende per comunità un certo tipo di organizzazione sociale diciamo non conflittuale e paritaria come la “comunità dei pari”, ma ancora sì se per comunità si intende, alla Tonnies, una comunità che sia di sangue  e/o di vicinato e/o di destino politico...anzi, la sociologia italiana si può dire pecca per eccesso di comunità…non tanto di sangue (benché non manchino casi di trasmissione ereditaria, che sarebbe sociologicamente interessante analizzare ma che qui non posso permettermi di fare) quanto di parentela spirituale (comparatico) e vicinato…poca mobilità geografica, solidarietà forte in gruppi ristretti e stabili, legami di clientela inclusa quella forma tipicamente accademica di clientela o meglio patronato che è la “cattedra” – istituzione che in alcune sedi universitarie e in alcune componenti è a ancora molto sentita e molto influente…(piccola nota dal campo: pubblicamente in sede di assemblea Ais una “cattedratica” ha ringraziato “una mia ricercatrice” per l’aiuto prestato nella raccolta di alcuni dati)…con tanto di baronati ancora ben radicati (soprattutto in alcune componenti, dove si usa ancora l’appellativo “professore” anche tra colleghi pari grado per designare il boss di turno, normalmente non molto dotato di capitale scientifico ma forte di capitale sociale e politico).

La cattedra non è poi che una istanza di un fenomeno più generale, e cioè l’idea che non tanto i posti fisici, quanto le posizioni di status, siano delle proprietà personali di chi le occupa (una forma come tante di patrimonialismo), e che chi le occupa ha quindi diritto di proteggerle da possibili sfide da parte di altri…da qui la scelta di colleghi non competitivi da parte di coloro che hanno posizioni di status elevato e che hanno, e nella misura in cui ce l’hanno, potere di reclutamento. Questo è comprensibile, e potenzialmente diffuso ovunque, ma in altri sistemi (non solo americano o  inglese) controbilanciato da un altro interesse, quello di essere, di fare ricerca, di insegnare in una organizzazione prestigiosa.

Il prestigio dell’istituzione si riflette infatti in quello individuale, e il singolo ha interesse a reclutare studiosi stimati. Questo accade, si badi, anche in Italia: ma funziona solo quando il boss è davvero uno studioso altamente stimato, consapevole della propria fama, e non timoroso di essere fatto fuori dal primo contendente. Quanti sociologi ci sono in Italia che si sentono in questa condizione? Che si sentono cioè così forti della propria scienza e reputazione da potersi permettere il lusso di allievi molto bravi e colleghi (di dipartimento ad esempio) di prima grandezza? Risultato: ogni piccolo boss si circonda di medie personalità scientifiche, che a loro volta si circondano, per lo stesso meccanismo, di personalità a loro inferiore, cioè mediocri….sino all’ultimo. Quanti “ultimi” di questo tipo ci siano in giro nelle fila dei sociologi italiani, studiosi senza arte né parte, che non sanno e non leggono, che non scrivono e se scrivono si sarebbe desiderato non lo facessero, persino pericolosi come docenti per la loro ignoranza, non so e non voglio sapere. Temo non pochi…in qualche caso, e questo è più grave, qualcuno di questi che sarebbero ultimi scientificamente (oggetto di scherno tra colleghi, persino tra allievi, spessissimo tra lettori delle loro cose) sono però in posizione di controllo…con effetti sulla selezione e il reclutamento che non si fatica a intuire.

Everett Hughes, il sociologo americano citato in apertura, allievo di Park e maestro tra gli altri di HS Becker e di Goffman, ha elaborato in un articolo celebre la nozione di “lavoro sporco”, connettendolo a quello di “brava gente”: lavoro sporco è quel lavoro che la brava gente, la gente comune, perbene o che si crede e si vede tale, non vuole fare, ma che ha interesse che altri faccia, su preciso mandato – non sempre esplicitato a dire il vero. Credo che questa coppia di concetti possa applicarsi con profitto al nostro caso: come spesso è accaduto nella storia (Hughes fa l’esempio estremo delle SS naziste, ma è abile nel mostrare i tanti nessi che portavano da questa setta radicale al mondo sociale della gente comune, della gente per bene, della brava gente) il lavoro sporco è stato delegato dai “bravi sociologi” a soggetti che ne hanno poi approfittato, e si sono sentiti investiti di una missione oltre che di un potere di controllo. Finendo per controllare coloro che gli avevano concesso la licenza. Ma il punto che Hughes mette in evidenza è che anche la brava gente è corresponsabile del male fatto da chi fa il lavoro sporco. Una delle domande che Hughes si pone è: come si reclutano i candidati per questi lavori sporchi? Io prendo spunto da questa domanda per chiedere se in sociologia, in quella italiana, non si sia creata una particolare condizione per cui chi è disposto a fare il lavoro sporco ha trovato in questa disciplina un’apertura insolita, e un terreno insolitamente fertile di coltura, e di sviluppo della sua perversione.


V.

Questo ci sospinge con forza al punto 2) quello dello statuto intellettuale, e in particolare della scientificità della sociologia italiana. Io non sono uno che crede nella scienza con la S maiuscola, non credo che la sociologia potrà mai essere quella scienza dura che alcuni vagheggiano, e neppure mi dispiaccio per questo limite…non mi trovo male in una disciplina terza fra scienza e letteratura, come ha scritto Wolfgang Lepenies in un bel saggio di qualche anno fa che dovremmo periodicamente rileggere (Le tre culture. Sociologia tra scienza e letteratura, Il Mulino 2000)….ma questo non vuol dire che non pensi (come non pensa certamente Lepenies e molti altri che non pensano alla sociologia come “Scienza”) che ci siano modi e modi di praticare questa “scienza debole”, alcuni più sensati e fondati di altri, modi sopratutto più controllati e controllabili, e anche per questo più in linea con alcuni degli standard acquisiti nella comunità internazionale, e in particolare quella che opera nei comparti più consolidati e stimati e che fanno la storia della disciplina (che per quel che io vedo sono quasi sempre, oggi, negli USA e in alcune università americane in particolare, senza con  ciò negare che anche altrove in alcuni momenti e luoghi si siano fatte buone cose e si possa ancora fare ottima ricerca….es. a Parigi,  a Manchester, a Oxford, ma anche a Rotterdam o a Barcellona).

In Italia si è a lungo dibattuto sulla scientificità dei metodi qualitativi….ricordo quando studiavo quanto inchiostro si è sparso e quante parole si sono dette… per arrivare alla conclusione, ma dopo un bel po’, che si può fare ricerca ottima anche senza modelli loglineari o tavole di mobilità…pensate se invece di tutti quei dibattiti e di quelle opposizioni, che nascevano spesso da una vecchia formazione (magari oltre oceano) non più aggiornata e altrettanto spesso dalla difesa delle proprie competenze acquisite, si fosse fatta ricerca, si fossero messi all’opera gli strumenti di ricerca di cui tanto si discuteva “politicamente”…Poi a un certo punto è scoppiata la moda dell’etnografia, e tutti a fare etnografia come se fosse alla portata di tutti…

C’è in Italia un forte effetto moda: i temi, i metodi, i riferimenti teorici, si scelgono perché così fan tutti…abbiamo centinaia di tesi di dottorato su fenomeni migratori, tutte uguali o quasi, di portata limitata, iperdescrittive, senza alcuna pretesa di portare contributi originali…e intanto nessun sociologo che studia seriamente istituzioni cruciali come la televisione, gli asili e le scuole elementari, e aggiungo (so che riderete) i festival di Sanremo.  Anche i teorici di grido rispettano questo schema: può mancare Bauman nei riferimenti bibliografici di un libro o di una tesi uscita dal giro dei cattolici? Può mancare Boudon da una tesi fatta a Torino? Peccato che Boudon sia uno studioso di sicuro valore ma anche molto provinciale, che non ha mai avuto un impatto significativo nel mondo angloamericano, e che è rimasto ovunque un fenomeno di nicchia, tranne che in Italia….col risultato che molte delle cose fatte in Italia negli anni ottanta e novanta invece di confrontarsi con temi e questioni all’ordine del giorno nella letteratura che più conta, insistono a discutere questioni e le risolvono con strumenti concettuali che non hanno circolazione altrove, rendendo difficile la circolazione degli studi fatti in Italia. Non dico che non si possono e anzi non si debbano leggere e anche tradurre autori minori o comunque che non segnano il dibattito, anzi, ma questo non deve avvenire a scapito di autori più influenti. Eppure, in Italia si è continuato a leggere e tradurre Boudon quando da un pezzo negli Usa e in UK si leggeva  e traduceva Bourdieu, che di Boudon è per molti versi l’antitesi. Sono un “fan” di Bourdieu, come è noto, ma se lo sono è anche perché non potevo accettare di vedere questo autore e la sua opera, a cui ero indubbiamente sensibile intellettualmente, così bistrattata e snobbata in Italia nonostante il suo valore e l’influenza che questa aveva nel dibattito internazionale. Adesso – ma sono passati dieci anni da quando ho iniziato a scrivere e ad agire pro Bourdieu - le cose sono cambiate, mi pare, e questo è un segnale positivo che le cose cambiano e possono cambiare, a patto che Bourdieu non diventi la nuova moda. Ma non credo accadrà presto.

Si pensi ancora, visto che ho citato Bourdieu, ad un concetto come quello di capitale sociale: a un certo punto l’abbiamo scoperto (tramite Putnam prima che Coleman, non certo tramite Bourdieu che pure l’aveva concepito e usato prima di entrambi) e tutto è diventato capitale sociale. Che ci fosse anche un capitale culturale nessuno era interessato a saperlo. Però la network analysis, che è lo strumento analitico che davvero può rendere quel concetto operativo, nessuno la studia, nessuno la conosce, nessuno la pratica (nemmeno quelli ce dicono di farlo)…ma la matematica tra i sociologi italiani è merce rarissima, e anzi so per certo che non è gradita neppure da riviste che si vogliono scientifiche come la RIS…perché se no chi la legge, chi la compra la Ris? Ma se non lo fa la Ris, chi lo fa, cioè chi pubblica articoli che fanno uso di matematica in Italia? E infatti nessuno pubblica, e nessuno scrive, e nessuno nemmeno si attrezza per farlo…a meno che non vada all’estero e pubblichi su riviste straniere…(Mi si perdoni questa nota polemica, che non è certo comunque pro domo mea non essendo un sociologo matematico.)

Come si spiega questo fenomeno di moda? Vari meccanismi, uno è la logica della cattedra (si studia quel che studia il capo e nel modo in cui lo fa il capo), un altro è la riduzione di complessità (facile riferirsi a due o tre concetti/autori di riferimento invece che andare a cercarsi i concetti e i teorici che più si attagliano ai nostri interessi di ricerca), un altro è illimitato interscambio tra studiosi di cui si è detto…e anzi il formarsi di nicchie protette dove tutti fanno la stessa cosa e non si rischiano incomprensioni né solitudini…e poi  perché la moda non è che la conseguenza della mancanza di originalità e di idee. Che è il vero problema.

Non è infatti tanto la pervasività di fenomeni di moda intellettuale, espressione di quella che chiamerei l’eteronomia della ricerca italiana, la conseguenza peggiore dell’organizzazione sociale della disciplina nel nostro paese. Effetto maggiore e per me più temibile è che questa organizzazione sociale NON offre condizioni favorevoli alla creatività intellettuale….che è lavoro, che implica impegno e investimento, e che presuppone non solo talento ma anche un ambiente che consenta al talento 1) di emergere e 2) di coltivarsi e 3) di riprodursi.

Intanto ci sono dubbi che i talenti in Italia (ma forse anche altrove) scelgano la sociologia. Ma ammettiamo che la scelgano e che ci sia nella sociologia talento come in altre discipline e in misura tale  da fare massa critica. A quel punto cosa succede?

Non ci sono standard condivisi, non ci sono garanzie di nessun genere che fare bene le cose verrà premiato, non ci sono incentivi allo sviluppo del senso critico e della originalità. Anzi, ci sono disincentivi. I maestri, quando ci sono, si sentono non come i pari (come avviene nelle comunità scientifiche che funzionano) ma come dei superiori, e quando non si sentono tali nel loro intimo, per non sentirsi da meno dei loro colleghi o di quello che credono i loro colleghi siano fanno la parte dei superiori, agendo in modo da mettere al proprio posto gli allievi…che spesso sono prescelti per la loro disponibilità a farsi mettere a posto (in tutti i sensi). Quando l’allievo critica il maestro, o agisce in modo indipendente dal maestro, scattano le sanzioni: conosciamo tutti casi di allievi che sono stati puniti, pur meritevoli, con mancate vittorie concorsuali, o con ostruzionismi di vario genere (il repertorio è ampio), incluso un certo terrorismo sociologico. Ora queste cose non è che non ci siano anche altrove, ma in Italia ci sono in una misura tale da farne non deviazioni rispetto ad una norma ma “la” norma. Il meccanismo mentale della cattedra e della deferenza accademica è dominante, e si insinua però anche in un contesto come detto non di grandi e reputati studiosi che possono persino stimolare la discussione interna ma di piccoli e medi accademici che non possono permettersi la critica pena il crollo del loro piccolissimo impero. Si insinua, come dirò, anche in un contesto spaziale, territoriale, circoscritto, con poche possibilità di “fuga”, e come tale eccezionalmente vincolante.

Insomma, in questa “comunità” che è più un campo, uno spazio organizzato composto di segmenti in competizione non per il diritto di dire la verità, come dice Bourdieu, o per la legittimazione di teorie e idee (Lamont 1987; Collins 1999), ma per il controllo delle posizioni di potere in termini di posti e di accesso a risorse finanziarie e – aggiungo a questo punto - di esposizione mediatica, a rimetterci è proprio lo studioso che insegue e persegue la ricerca come vocazione, che ha scelto di essere sociologo “per” la sociologia, e che non “della” sociologia ma “per” la sociologia vive. In questo campo così strutturato, diviso in consorterie accademiche prive di sostanziali basi culturali-intellettuali, consorterei che di fatto controllano la gestione dei posti e quindi il reclutamento, non si stimola la competizione tra progetti o programmi intellettuali, né l’originalità, né lo scambio di idee. Anzi, in un certo senso la si frena, la si condiziona, la si riduce a farsa, o nella migliore delle ipotesi a occasione per battaglie di altro genere.

Troppa gerarchia troppo legata a posizioni acquisite che spesso valgono più per il tempo trascorso (effetto anzianità) che per il merito. Distinzioni nettissime non tra idee e produzione intellettuale ma tra posizioni accademiche (I fascia, II fascia, III fascia, precari vari). Sostenere, come pure ha fatto l’amico Paolo Volontè sul sito della Treccani, che le componenti sono equivalenti funzionali del sistema dei partiti, che siano quindi cinghia di trasmissione tra una presunta base ed una elite, che aiutino e garantiscono l’accesso democratico alla produzione intellettuale, significa fraintendere il significato di democrazia nel campo scientifico. La scienza non è democratica, e le risorse non si distribuiscono a pioggia: il campo scientifico è fortemente gerarchizzato, segnato da marcate disuguaglianze, da una distribuzione delle risorse piramidale: non solo le risorse economiche, ma anche quelle simboliche: il riconoscimento è per definizione limitato, e il suo valore è tanto più elevato quanto più è raro. L’importanza del riconoscimento come fattore motivazionale è stato accertato da tempo (Hagstrom 1967) proprio in una delle prime ricerche empiriche sul funzionamento delle comunità scientifiche. Il principio del dono è stato identificato da Hagstrom come cruciale nel gioco delle relazioni che costituiscono le comunità scientifiche: dono di articoli alle riviste, dono di estratti e di libri ai colleghi, doni dei risultati delle proprie ricerche alla comunità circostante, al pubblico. Che ricambia(no) con il riconoscimento. Ma cosa c’è di più lontano da questa donazione de proprio tempo, del proprio lavoro e del proprio sapere del sistema di scambi, di alleanze strategiche, di mercanteggiamenti, che governa le relazioni tra le componenti, e all’interno delle componenti, spesso, i rapporti tra i singoli capi locali?  Si badi, anche il dono è una forma di scambio, anche il dono instaura rapporti di potere (Bourdieu è sul punto molto esplicito), ma il dono funziona appunto come dono nel momento in cui questo rapporto di potere viene eufemizzato, viene mascherato, non viene affermato come tale, e si ha quindi la sensazione – che è importante in quanto fondatrice di solidarietà non autoritative – di partecipare da pari ad un gioco che trascende i singoli, e i loro personali interessi, contribuendo alla produzione del sapere, e quindi di un bene pubblico.



VI.

C’è uno spazio per una comunità scientifica sociologica italiana/in Italia, che sia non una mera organizzazione di interessi corporativi di gruppi di potere ma un campo di produzione intellettuale in cui la moneta corrente è il riconoscimento dei pari? E’ questo un problema geografico ma anche culturale: lo spazio coincide qui con la comunità linguistica dei parlanti la lingua italiana, che è la lingua dominante nel campo sociologico italiano. Non ci sono dubbi che lo spazio in cui opera la sociologia italiana sia limitato: l’Italia ha certo mole università, ma insomma lo spazio di possibilità è territorialmente circoscritto. In una intervista, Howie Becker ha spiegato la differenza fra USA e Francia in termini di dimensioni, di spazio di possibilità….ci sono così tanti posti dove stare che non ha senso confliggere per un posto (non così in Francia dove tutti vogliono andare a Parigi). L’Italia è caso un po’ diverso, policentrico, con tante città e tante sedi universitarie non facilmente gerarchizzabili (anche questo fa problema, comunque, perché non c’è una scala in cui collocare il riconoscimento dato dalla sede accademica, e quindi non c’è un principio di costruzione delle gerarchie intellettuali e del merito che possa funzionare come fattore motivazionale ma anche di risoluzione in caso di controversie), ma ciò che si guadagna in termini di moltiplicazione delle sedi si perde con la  scarsa tendenza alla mobilità territoriale, si cerca di stare vicino casa e quando si arriva non ci si schioda. E si cerca di controllare chi arriva perché si ha l’aspettativa di passare lì la vita (non di stare un paio d’anni e poi andarsene a cercare un posto migliore altrove).

Naturalmente, anche la Gran Bretagna è piccola, ma la sua lingua travalica i confini nazionali. Non così per l’Italia. Temo che sino a quando useremo l’italiano questo spazio sarà ridotto e problematico…con ricadute ovvie anche sul mercato editoriale, che impone le sue logiche in misura proporzionale alla sua capacità di espansione e alla possibilità di costruzione di nicchie specialistiche tali da garantire una circolazione minima dei beni culturali (in questo caso, libri di sociologia). Per uscire da queste ristrettezze credo che non ci sia altra soluzione – visto che l’età degli imperialismi coloniali è finita , e l’Italia ha fatto quel che ha fatto e non può più fare molto – che seguire l’esempio di Olanda e Scandinavia, cosa che in parte qualcuno sta facendo (e ricordo ancora Sociologica). Insomma, piccolo paese, piccolo mercato editoriale, il che da forza agli editori prezzolati, lingua poco conosciuta, il che dà spazio a libri che non portano nulla se non traduzione di cose che circolano altrove da tempo, e soprattutto consentono a cose vecchie e fritte e rifritte di circolare ancora….voglio notare che tutti i sociologi delle origini erano tradotti anche in altre lingue, spesso in francese, alcuni anche in spagnolo, alcuni in inglese (magari dopo molto tempo, come Pareto, Mosca, o in contemporanea, come Gini che ha spesso pubblicato in inglese, articoli almeno…e che viene discusso nel primo libro importante di teoria sociologica, quello di Sorokin del ‘27). Piccoli spazi, ma anche come già ricordato tendenza – tipicamente italiana, questa, che affonda le radici nella storia politica e culturale del paese, e non caratterizza certo solo i sociologi - al localismo, anche come effetto della stabilità territoriale: questo porta ad una cristallizzazione che non aiuta il movimento, non solo fisico ma  anche quello delle idee…circolazione tra sedi significa anche contatto con colleghi e quindi con idee diverse, e quindi anche tolleranza per il diverso da sé.

Poi c’è la questione dell’istituzione accademica nel suo insieme (l’Italia come università italiana)…qui la sociologia soffre come altre discipline, e tutte sono sulla stessa barca….ma la sociologia affonda un po’ di più di altre….per le ragioni strutturali e culturali sopra dette. Rimandare al malfunzionamento dell’università la causa della crisi della sociologia è una comoda scappatoia di chi normalmente ha contribuito alla crisi medesimo con le sue pratiche o anche il suo disinteresse, o la sua miopia. Se la sociologia sta peggio di altre discipline a lei simili – e di certo sta peggio della scienza politica, della scienza economica, della storia moderna e di quella contemporanea, forse non così peggio dell’antropologia che però essendo più piccola non ha i problemi di crescita selvaggia che ha la sociologia, e non essendo particolarmente esposta, storicamente, al pensiero cattolico non ha il problema di gestire oggi questa complessità culturale  - è per problemi interni al campo sociologico. E questi non sono riconducibili ad una presunta crisi strutturale della sociologia come disciplina, perché comunque la sociologia italiana sta molto peggio di quella di molti altri paesi, in cui la sociologia, per quanto non floridissima, è comunque una disciplina rispettata, almeno dai suoi cultori. O comunque, i problemi che abbiamo qui elencato e discusso non sono presenti in quei paesi e in quei campi sociologici nazionali nella stessa misura e con le stesse implicazioni negative.

La localizzazione spaziale del campo sociologico italiano ha però un vantaggio, che io ritengo sia un grande punto di forza e un potenziale appiglio per il futuro: l’Italia, con la sua collocazione mediterranea, con la sua vicinanza alla Francia da un lato e alla Germania dall’altro, con la sua storia di relazioni culturali con l’una e con l’altra, con la sua appartenenza storica al mondo occidentale sotto l’egemonia americana, con la sua storia millenaria e il suo passato intellettuale e culturale, è in una posizione strategica per fungere da cerniera, e insieme da laboratorio, per la sociologia globale. Non mi soffermo, perché questo è la missione che sta cercando di svolgere “Sociologica”: contribuire alla sprovincializzazione della sociologia italiana contribuendo al contempo alla provincializzazione di quella americana, puntando sulla costruzione di una rete di scambi e confronti intellettuali tra paesi e tradizioni europee (Francia, Germania, paesi scandinavi, UK, anche Israele, nella misura in cui partecipa storicamente alla cultura europea) e tradizione americana, inclusa quella canadese, persino quella latina. Un simposio come quello sulla ricezione globale di Bourdieu nel mondo, che ha impegnato buona parte di tre numeri della rivista, così come molti degli altri simposi e spesso i forum che accompagnano i saggi, sono alcune delle prove di questo lavoro per favorire la circolazione del sapere sociologico e garantire all’Italia un posto in questa circolazione. Non siamo i primi ad avere colto questa potenziale strategicità dell’Italia, che nasce anche dal suo radicamento in reti internazionali formate nel tempo anche dai flussi migratori – si pensi a Germani e Treves in Argentina – ma ci pare che questa collocazione strategica ancora non sia stata sfruttata appieno, e ancora non abbia portato alla sociologia italiana i risultati positivi che può produrre. Soprattutto in questo momento storico.


VII.

Come fare per rimediare alla situazione critica sopra tratteggiata, che nasce da peculiarità insieme organizzative e culturali, e da una storia che ancora fa sentire i suoi effetti, e li fa sentire con forza? Quali strade si possono percorrere? Non ho pretesa di originalità, ne sono state proposte tante da chi mi ha preceduto. Il mio contributo sta nello stabilire una gerarchia di importanza tra i possibili rimedi.

Due proposte facili e scontate, a livello individuale:

a)  andare a studiare fuori e poi tornare in Italia che è bella, portando non solo nuove pratiche e nuovi modi di fare, ma anche nuovi valori e nuove relazioni sociali
b)  pubblicare il più possibile su riviste internazionali o in lingua inglese, andare a conferenze e convegni internazionali o farli a casa proprio ma in inglese anche con la partecipazione di studiosi stranieri.

Non è comunque una novità: diversi dei sociologi entrati nella professione tra la fine degli anni sessanta e i primi settanta sono stati all’estero e hanno pubblicato, e talvolta ancora pubblicano, su riviste internazionali. Certo, la maggior parte di quelli che detengono i poteri di organizzazione e di reclutamento della professione, e che hanno contribuito e ancora contribuiscono al suo deterioramento, non solo non sono andati e non  vanno all’estero ma neppure pubblicano su riviste, neppure su quelle italiane.  C’è quindi una plausibile relazione inversa tra gestione disciplinare nefasta e diciamo cosmopolitismo intellettuale. Puntare su quanti sanno guardare oltre i confini nazionali, sanno relazionarsi con altre “comunità” nazionali (disciplinari), formare nuove generazioni di sociologi che sappiano e ancor prima vogliano fare tutto questo è una strada insieme percorribile e potenzialmente proficua. Ma i tempi possono essere lunghi, e nel frattempo la sociologia nazionale può cadere nel baratro.

Adesso le soluzioni più difficili e che presuppongono azioni collettive:

      c) Valorizzare la nostra storia intellettuale, la nostra tradizione, studiare Pareto, Gramsci anche Gini e proporsi all’estero anche come eredi di questi studiosi… “anche”, ho detto e  sottolineo, perché sarebbe deleterio pensarsi solo come “eredi” di “padri fondatori” (ricordarsi del motto di Whitehead ripreso da Merton: una scienza che non sa dimenticare i propri padri ecc.…); studiare anche cose, oggetti, temi della storia italiana, che vengono saccheggiate dai sociologi americani e fatte oggetto di studi anche celebri che in Italia a volte neppure vengono letti (penso a Padgett su Firenze rinascimentale, e ai tanti studi su pezzi di storia italiana fatti da sociologi angloamericani: quanti dei 1000 sociologi italiani li conoscono?)
      d)  Incoraggiare a fare ricerca metodica , seria, su cose, su oggetti concreti, su problemi sociali specifici, e non a teorizzare: pochi lo sanno fare e il rischio è quello di avere articoli e libri inutili oltre che brutti .In Italia si teorizza moltissimo, con risultati meno che mediocri, per lo più, e comprensibilmente visto che la teoria non è certo appannaggio di tutti (e invece il presidente uscente dell’Ais ha posto la settimana scorsa l’assenza di produzione teorica in grande stile come uno dei problemi della sociologia italiana, e ha invitato a rafforzare proprio la teoria sociale…).
5    e)   Insegnare bene il metodo, e il rigore nell’applicarlo, senza pensare che solo la statistica sia rigorosa, il confronto quantità/qualità ha logorato i sociologi italiani per anni e per nulla, un fantoccio (che purtroppo viene ancora riesumato, anche se in modo sottile come ha fatto Hans Schaade all’incontro organizzato da Polis per il Premio “giovani ricercatori”) ….come quello macro-micro in parte….

Strade ancora più difficili da percorrere, quasi impossibili forse, ma che si può almeno provare ad imboccare:

6    f)   abolire le componenti costi quel che costi, a rischio di mandare all’aria tutto…questo probabilmente vuol dire…
7    g) rifare l’associazione, rifarla da capo, azzerarla, o farne una nuova e porsi in posizione competitiva con quella vecchia…non è una cosa impossibile, anzi ci sono precedenti: è accaduto tra gli antropologi nostrani, che oggi hanno due associazioni professionali, ma è accaduto qualcosa di simile negli USA nel ’35….non tanto una nuova associazione, (l’ASA è nata in realtà ai primi del novecento, anche se con altro nome), ma una nuova rivista (ASR) che facesse concorrenza con la vecchia (che era l’AJS) e spezzasse monopolio professionale/disciplinare di Chicago…personalmente direi anche: non fare una nuova associazione con pezzi della vecchia, che evidentemente hanno accettato questo sfacelo e hanno più o meno direttamente contribuito a produrlo, ma valorizzare al massimo chi si è tenuto fuori e non ha scambi o favori pregressi da onorare.
8    h)   selezionare nei concorsi giovani studiosi e quindi futuri colleghi che non abbiano come merito principale quello di essere ossequiosi e disponibili (quante strutture della personalità di questo tipo vedo tra i sociologi italiani!) ma che siano interessati, anche contro il proprio interesse di carriera, e a costo quindi di rompere con il maestro o boss di turno, alla ricerca e allo scambio di idee (al di là degli steccati artificiali) e all’innovazione… questo vuol dire, dal punto di vista di chi ha già acquisito status professionale,  non avere a disposizione portaborse, è vero, ma se uno si guarda allo specchio poi potrebbe anche sentirsi meglio;
9    i)   non accettare pratiche concorsuali che non solo ledono il senso di giustizia se non la legalità, ma anche il senso del nostro lavoro, di quel che facciamo come sociologi…scegliere gente brava vuol dire avere bravi e interessanti interlocutori nei nostri dipartimenti e tra i nostri lettori e tra i nostri colleghi di ricerca.

      Belle parole, belle cose, ma come realizzarle? Ecco il mio consiglio, il mio invito. Il più importante di tutti. Avere coraggio di agire…anche scontrandosi duramente con colleghi affezionati al marcio e di fatto attratti da questa incredibile corrente suicidogena che sta segnando la sociologia in Italia. Il coraggio è la premessa di quella che io vedo come la sola condizione per uscire da questa situazione critica: l’intransigenzaFaccio mio l’appello appassionato di Alessandro Pizzorno a un pensiero scientifico intransigente, che tuttavia non è affatto “naturale a una scienza così aperta, e curiosa e proteiforme e inerme, come la sociologia” (cito dall’intervento di Rositi su Il Mulino, sett. 2010) ma al contrario è l’orizzonte culturale, e perciò artificiale e sempre precario, e sempre bisognoso di nuova linfa vitale, e di difesa, entro cui dobbiamo sforzarci di agire: 


      "Sappiamo di aver bisogno di una indagine che deve essere portata avanti con intransigenza, anche quando avversari, o compagni, si interrompono, e ogni uditorio concreto, storicamente determinato, appare mancare, e resta solo la speranza, senza prova, in un «ideale uditorio universalmente umano" (Pizzorno 1972). 


      Alla “speranza”  di questo uditorio ideale e universale, speranza che temo non sia oggi così diffusa e solida come forse era allora, ma forse non lo era neppure allora visto che Pizzorno ha poi spiccato il volo per altri lidi più favorevoli alla ricerca sociologica, dobbiamo ovviare con il coraggio dell’intransigenza. La sociologia è fatta da uomini e donne in carne ed ossa, da persone. E sono le persone che fanno la sociologia – come ogni altro fenomeno sociale. Weber ha identificato nel carisma una delle forze motrici della storia. Carisma nella sociologia italiana se ne vede poco (meno che in alcune altre discipline). Ma il carisma come dote eccezionale del singolo non esaurisce il concetto. C’è anche un carisma istituzionale, un carisma di gruppo. W.E.B. Du Bois, grande sociologo nero negato a lungo dai sociologi bianchi americani (ma non da Weber, che lo aveva conosciuto e lo stimava e lo segnalava all’attenzione dei sociologi tedeschi che credevano nella disuguaglianza delle razze e nell’inferiorità naturale dei neri) identificava in un talented tenth la forza sociale cui delegare il lavoro per l’emancipazione della comunità nera. Una forma di elitismo, si dirà, da arte del solito pensatore radicale e pronto ad abbracciare, come farà, il marxismo. Ma l’elitismo dovrebbe essere nelle nostre corde intellettuali – dopo Pareto, Mosca, Michels e i loro seguaci e allievi (incluso Gini). Di certo è nella nostra tradizione culturale, ed è ancora ciò che per cui la sociologia italiana è ricordata nel mondo. La scienza non è democratica nel suo funzionamento interno, lo è nelle modalità di comunicazione e trasmissione dei saperi. Lo è nella pretesa che tutti, a prescindere dalle loro condizioni sociali di esistenza ma non del loro merito, possono contribuirvi e riceverne tutti gli onori e i meriti appunti.  La scienza è meritocratica e per sua natura gerarchica e gerarchizzante: ci sono i grandi e i mediocri, ci sono gli innovatori e i seguaci.  E’ a pochi eletti, consapevoli e fieri della propria vocazione e dell’importanza della propria disciplina e professione, con un riconoscimento intellettuale da parte di altri eletti, che io affido il compito di tentare l’uscita da questa situazione di emergenza critica che ha minato non solo la reputazione della sociologia all’esterno, ma anche la motivazione di molti sociologi all’interno – di certo di molti sociologi della mia generazione. E’ alla loro buona volontà, oltre che intelligenza, che mi appello. Ma anche e soprattutto al loro coraggio e alla loro, questa soprattutto, intransigenza.  

Marco Santoro




[1] “In difesa della sociologia storica” è il titolo di un libro pubblicato qualche anno fa da uno dei pochi sociologi storici che ci sono in Italia (Orsini 2005). Negli USA la sociologia storica è non solo una delle più effervescenti specialità, ma anche il riferimento sub disciplinare di una delle sezioni dell’ASA più folte.
[2] La componente cattolica, organizzata dal 1995 nella SPE (associazione “Sociologia per la Persona”)  è anche l’unica  a pretendere, proprio in quanto componente, di avere un progetto culturale-intellettuale, e una missione da compiere: vedi in particolare La Sociologia della persona. Approfondimenti tematici e prospettive (a cura del Gruppo SpE), Milano, Angeli, 2007. Naturalmente, il fatto che ci sia questa pretesa non implica omogeneità di vedute né unicità paradigmatica tra i sociologi che pure figurano come soci della citata associazione e/o come “cattolici”.  Dal sito (http://www.sociologiaperlapersona.it/index.html) apprendiamo che: "Il gruppo SPe - Sociologia per la persona - nasce nell’ottobre 1995 e raccoglie gli studiosi che, a partire dall’impegno pionieristico di Achille Ardigò, hanno in comune uno specifico modo di intendere l’analisi sociologica. SPe si fonda su una lunga e matura esperienza d’incontro, di cooperazione e di impegno nella vita associativa di numerosi sociologi italiani che, pur muovendo da esperienze diverse, condividono precisi valori, quali il primato della persona e della sua libertà nella vita sociale.
Il Gruppo si ispira al rigore scientifico quale ideale regolativo e si propone di orientare la ricerca e la riflessione teorica su tematiche centrali per lo sviluppo sociale e per la crescita di una convivenza civile, libera, democratica, solidale, rispettosa delle diverse culture e capace di valorizzare i differenti ambiti associativi e comunitari".
[3] Ringrazio Mario Diani per avermi trasmesso i dati nominativi delle sue ricerche sul punto (su cui vedi almeno Diani 2009) e aver discusso a lungo con me dei significati da attribuire a questi dati, e dei loro limiti.  





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